sabato 8 febbraio 2020

PRESCRIZIONE: COSA CAMBIA

La prescrizione è nel linguaggio giuridico l’estinzione di un diritto nel caso in cui il titolare non lo eserciti per il tempo determinato dalla legge. A valenza sia in ambito civile che penale, con la differenza che in ambito civile comporta l’estinzione di un diritto soggettivo (ad esempio la richiesta di rimborso), in ambito penale l’estinzione di un reato (ad esempio non viene più punito un furto o un abuso di ufficio). L’istituto della prescrizione non nasce in epoca moderna, non è nuovo al diritto. Già nell’Atene classica era previsto un termine di prescrizione di 5 anni per tutti i reati, ad eccezione dell’omicidio e dei reati contro le norme costituzionali, che non avevano 
termine di prescrizione. 

La prescrizione in Italia interviene quando, dal momento in cui è stato commesso il presunto reato, trascorre un numero di anni pari alla pena massima prevista per quel reato. In alcuni casi, contando eventuali sospensioni e interruzioni del processo, questo periodo può essere esteso fino alla durata massima della pena più un quarto. Passato quel periodo senza che sia stata giudicata, la persona accusata di un certo reato non è più processabile o punibile. Tutti i reati possono finire in prescrizione, tranne quelli che prevedono l’ergastolo (principalmente l’omicidio). Facciamo un esempio: rapina senza aggravanti, il codice penale prevede all’art. 628 la pena della reclusione da cinque a dieci anni. La prescrizione sarà quindi fissata a dieci anni, trascorsi i quali senza che si sia arrivati ad una sentenza definitiva, il reato si ritiene 
estinto. Quindi ad esempio, se il processo di primo grado si conclude dopo 8 anni, con condanna o assoluzione che sia, restano due anni per esperire i successivi gradi di giudizio e giungere a una sentenza definitiva. Se tale sentenza interverrà dopo tale termine, il reato sarà prescritto e pertanto non perseguibile e punibile. 

La prescrizione nasceva dunque come strumento che lo Stato poteva utilizzare quando non era più interessato a perseguire alcuni reati, nel tempo tuttavia è diventata una forma di garanzia per gli imputati contro l’eccessiva lunghezza dei processi e come un mezzo volto a ridurre gli errori giudiziari, dal momento che più passa il tempo più le indagini e i processi si fanno complicati (le prove si deteriorano, i testimoni muoiono, eccetera). Da molti, in errata lettura, viene quindi considerata come una sorte di limite oltre il quale il processo diventa ingiustamente lungo e quindi giustifica che si termini forzatamente. Si tratta pero di una lettura impropria, in quanto l’omicidio ad esempio non va in prescrizione, ma ciò non permette di considerare come giusta una durata di circa di 30 anni per tale processo. 

Ciò che è bene sottolineare che non si può fissare a priori una ragionevole durata dei 
processi, ma essa andrà valutata caso per caso. Come cambia la prescrizione con la nuova riforma Bonafede? A seguito della riforma, restano invariati i termini per la 
prescrizione, ciò che cambia è che essa interverrà solo dopo il giudizio di primo grado. In altre parole, dopo una sentenza di primo grado che prevede la condanna dell’imputato la prescrizione non opererà più. Tornando all’esempio della rapina, se il processo di primo grado dura otto anni, non si avranno più due anni ancora per giungere ad una sentenza definitiva prima che intervenga la prescrizione, ma tutto il tempo che si vuole. Nell’ottica dei riformisti ciò serve a garantire la cosiddetta “certezza della pena”, e quindi che il colpevole non venga punito per il passare del tempo, e a ridurre le lungaggine dei processi italiani, congiuntamente anche all’introduzione di termini fissati per legge in riguardo alla durata massima di ogni grado del processo. Ebbene tale riforma potrebbe nella pratica ottenere i risultati sulla carta sperati? Difficile. L’attuazione dell’art. 111 Costituzione parla di ragionevole durata del processo, ragionevole durata che deve essere valutata in relazione al caso singolo e non decisa a priori, senza tenere conto della complessità delle singole vicende e delle indagini preliminari, con un pericoloso meccanismo che depotenzia il contrasto alla criminalità più articolata e pericolosa. 

Per non parlare poi della lesione dell’art. 27 Costituzione che prevede la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva, con tale riforma invece i condannati perderebbero in seguito alla sospensione della prescrizione la loro posizione di non definitiva colpevolezza fino alla sentenza definitiva. Inoltre altro principio che bisogna tener presente è il bilanciamento degli interessi in gioco: i processi hanno dei costi, e in base al principio di economicità, viene valutato anche il costo nel perseguire un reato minore a fronte del riscontro monetario dello stesso. Varrebbe 
dunque la pena sostenere l’apertura infinita di un processo per cifre irrisorie? Inoltre si è davvero esenti dal rischio prescrizione? Se la prescrizione si interrompe dopo il 
primo grado, non si corre il rischio di attuare strategie processuali atta a farla intervenire in tale giudizio al fine di scongiurare una sentenza che poi sospenderebbe tale istituto? Non si correrebbe il rischio che i processi vengano bloccati ancor prima di iniziare? In conclusione, la riforma della giustizia è qualcosa che deve essere attuata, proprio per i tempi lunghi della stessa, ma tale riforma più che dare soluzioni rischia di creare rallentamenti ancora maggiori nonché un atteggiamento superficiale della magistratura, che per non incorrere nel rischio sanzionatorio potrebbe decidere di rinviare a giudizio senza un effettivo controllo dell’esperibilità o meno dell’azione penale.

Scritto da Francesca Palleschi

Pubblicato sul numero 3 del 2020 del Il Corace

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