Ogni uomo è un angolo del
ring. In ogni angolo si consuma una tragedia, una lotta, una
conquista, una vittoria. Ogni angolo ci rimette in piedi o ci fa
barcollare per poi lasciarci cadere a terra. In fondo ci insegna a
campare, a gestire la sopraffazione della vita, perché siamo “bestie
dentro una giungla”, destinate alla rissa.
Quella che si è
disputata il 30 ottobre 1974 allo Stade Tata Raphael fu la rissa più
elegante che il mondo della boxe aveva mai visto prima. I due pesi
massimi George Foreman e Muhammad Alì si scontrarono per
riconfermare, nel caso di Foreman o riottenere, nel caso di Alì, il
titolo di campione del mondo. L’esito di quell’incontro è a
tutti noi noto, come è nota la valenza simbolica di quella vittoria.
Una vittoria che non fu del singolo, ma della collettività.
E’
interessante indagare, a tal proposito, il segno gestuale delle dita
“a V”, che simbolicamente carico di significato, ha mutato la sua
accezione nel corso del tempo. Si pensi che, prima di diventare segno
di “vincita”, sul finire dell’ottocento la sua ostensione
derivava dal fatto che i francesi avessero
l’abitudine di tagliare ai prigionieri inglesi le dita che
servivano per tirare con l’arco.
Ma la vittoria ha sempre due
facce. Per uno che vince c’è la controparte che perde. E se la
vittoria d’Alì fu una vittoria collettiva, la probabile perdita di
un altro Alì, un Alì arabo, appena ventenne, rischia di mostrarsi
come una perdita mondiale.
Ali Mohammed Baqir al-Nimr.
Reato: aver
partecipato ad una delle tante manifestazioni della primavera araba.
Quindi sommossa, incitamento alla rivoluzione, vilipedio contro il Re
dell’Arabia Saudita. In due parole: aver espresso un desiderio
di libertà, un’esigenza primaria che sta diventando, invece, una
condizione primitiva.
Viene arrestato nel febbraio del 2012 per dei
reati compiuti nel 2011 – quando aveva 17 anni – durante la
primavera araba.
Nella cella viene torturato, finché il dolore non è
tanto forte da mischiarsi col sapore del sangue pesto tra i denti.
Ali confessa reati che non ha commesso.
Pena: condanna a morte. Prima
decapitato e poi crocifisso in pubblica piazza. La stessa sorte che
ad altri, prima di lui, è già toccata. Viene in mente la frase
d’apertura di Sarban, che inizia il suo romanzo “Il
richiamo del corno” con l’espressione: “E’ il terrore ad
essere indescrivibile”.
In questa frase, Sarban, spiega nel corso
del romanzo, che non c’è terrore più lancinante che quello di
essere cacciati come prede. E mentre ci fu un Alì che rappresentò
l’onestà del combattimento, della lotta e il senso della vittoria,
oggi ce n’è un altro che rischia di diventare un’icone come la
statua acefala di Samotracia. C’è un Alì dentro ognuno di noi.
Alì, Alì bomaye
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