mercoledì 22 febbraio 2017

PD: UNA SEPARAZIONE PIU' CHE UN DIVORZIO ASPETTANDO IL CONGRESSO

Niente lacrime. Non dalle parti del Nazzareno, non da quelle del teatro Vittoria dove sabato 19 Febbraio si è consumata la scissione del PD e dal PD di Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza, Enrico Rossi, e in un primo momento anche Emiliano, prima di una raffica di giravolte che alla fine lo hanno portato a candidarsi alla guida del PD, insieme al ministro Andrea Orlando.
Massimo D’Alema aveva già dato, per quanto presente, e Pisapia con il suo “campo di sinistra” in parte ha dato e in parte darà il 12 Marzo, alla sua convention.

Niente lacrime, come quelle mitiche di Occhetto quando sciolse il PCI, Bolognina 1989, o di altri scissionisti, bruttissimo termine, in altre epoche. Solo un accenno corale ma sentito delle note di “Bandiera Rossa”, tanto per ricordare che al cuore non si comanda. Ma nulla di più. Però che strana questa scissione della minoranza PD, a “rate” come ha titolato “Il Fatto quotidiano”, a piccole dosi, l’ultima della quale è arrivata nella giornata di sabato 25 con Vasco Errani che sa cosa lascia ma non sa ancora quello che trova perché , anche lui, come altri, sta valutando.
Una scissione senza lacrime nulla toglie alla drammaticità e alla sofferenza di una scelta che riguarda il più grande partito italiano, e sicuramente il più importante della sinistra europea.

Una scissione che somiglia molto a quelle coppie in crisi che a un certo punto decidono di separarsi per un periodo con il solito pretesto, a volte però valido”: “devo riflettere”. Non è neanche una sensazione se, in modo molto esplicito sono in tanti a dire “staremo a vedere”, ”dipende dall’esito delle elezioni”, “lavoriamo ad un campo aperto del centrosinistra anche se non sarà un nuovo Ulivo”: dichiarazioni indiziarie, che messe in fila fanno una prova: se Renzi perde le primarie si ritorna nel Partito.
Ora ci si allontana “per vedere di nascosto l’effetto che fa”. A parlar chiaro, come sempre, anzi con il suo consueto cinismo è Massimo D’Alema: “Se Orlando vince le primarie, le cose possono cambiare”. Orlando chi? Andrea Orlando, già dalemiano, poi “giovane turco” con Orfini e renziano, poi non più dalemiano, poi non più tanto giovane, e ancor meno Turco, ed ora neanche più renziano. Spara palle di fuoco contro l’ex premier. Ora però il ministro della Giustizia sembra volersi giocare la sua carta, “buttandosi a sinistra” citando il mitico Totò. Quanto basta per allertare D’Alema e metterlo in aspettativa.

L’altro candidato, molto più sanguigno di Orlando, Emiliano, punta ad un voto più trasversale, ma nei giorni precedenti alla scissione si è incartato in un gioco tattico che gli ha fatto perdere simpatie. Esco, no, resto, esco di nuovo, va bè resto e mi candido. Il tutto in meno di 12 ore, l’equivalente di mezza giornata. Il dato vero è tutto politico ed è pure semplice: lo statuto prevede che se nessun candidato alle primarie supera il 50% a scegliere il segretario sarà l’assemblea nazionale. Ed è questo il vero obiettivo di Orlando e Emiliano. Questa cosa è chiara a tutti, persino a Renzi. Se le cose stanno così, se questo è lo stato dell’opera al momento in cui scriviamo, la domanda più ovvia è: ma allora perché scindersi? Perché non combattere dall’interno?

A volte le domande complesse hanno risposte semplici: perché Renzi ha trasformato questo Partito in una qualcosa di geneticamente modificato, che può essere una scelta giusta o sbagliata, ma lo ha fatto. Con scelte di politica economica soprattutto ma anche istituzionali e di altra natura, che di fatto hanno totalmente bypassato i valori di riferimento della sinistra. Quello che è venuto meno al PD è stata la capacità di connettersi con la sua gente, prima ancora che con il Paese, con la storia e la memoria di questo popolo che era ed è fatto di milioni di uomini e donne giovani e anziani. E questo strappo della memoria, delle radici, in una fase storica epocale dove tra l’altro forte è il richiamo alle identità contro una difficile gestione della globalizzazione, si è poi innestato con un disagio dei giovani e di larghe fasce sociali sulle grandi problematiche del lavoro e dell’occupazione. Renzi ha elaborato l’idea che questo cambiamento potesse avvenire senza la partecipazione dei militanti, senza strutturare e rilanciare il Partito.
Dinanzi a questo quadro la sinistra del PD, quelli della “Ditta”, per capirci, non potevano ulteriormente indugiare. Il grande tema che si era posto ed è posto è la necessità o meno della sinistra nella società e il suo valore politico. Per la sinistra, nelle sue varie sfumature, è da questo orizzonte che si legge il populismo, il grillismo, il salvinismo, ma anche il trumpismo: per Renzi la soluzione era la scorciatoia delle elezioni anticipate con vittoria del PD e quindi elezioni a Giugno. E per assicurarsi la vittoria era ed è pronto anche a giocarsi la carta populista.

Sullo sfondo si agita la questione Governo: questione paradossale, di quelle che fanno impazzire i corrispondenti della stampa estera. La riassumiamo così: il Governo Gentiloni, considerato fotocopia del governo Renzi e da Renzi voluto, e criticato dalla sinistra dem, ora è difeso dalla sinistra dem (Nicola Stumpo, bersaniano di ferro, su Repubblica lo conferma (“i nostri 38 deputati alla camera e 13 al Senato saranno di sostegno alla maggioranza”): e Renzi non vede l’ora di farlo cadere: “Paolo stai sereno”, sarà già pronto il tweet? Come è possibile tale alchimia?
Facciamo un tentativo estremo di scriverlo papale papale: Renzi ha messo su questo governo in fretta e in furia per poi andare alle elezioni ad Aprile o a Giugno. Aveva sottovalutato Gentiloni, e soprattutto l’alleanza Gentiloni-Mattarella, a cui si è aggiunto Napolitano con il suo famoso epitaffio: “per far cadere un governo ci vogliono dei motivi”. E il desiderio delle urne dell’ex premier non è certo una buona motivazione.
Mattarella ha aggiunto: ci vuole un sistema elettorale omogeneo per Camera e Senato, e il Presidente del Consiglio ha premesso, discorso di insediamento alla Camera: “Un Governo va avanti sino a quando il Parlamento non lo sfiducia”.

Nel frattempo è successo che: Gentiloni si sta facendo spazio, con sottile e democristiana autonomia, l’ex minoranza vuole logorare Renzi e sa che l’unico modo per farlo è far durare il governo in carica, i cinque stelle nonostante tutti i loro guai non hanno subito alcun tracollo significativo, e soprattutto Berlusconi necessita di tempo per risolvere le sue pratiche con Salvini e con quel bel tomo di Vivendi, che sta scalando Mediaset.
Giusto o sbagliato far durare questo governo, il quarto non eletto dal popolo?
Dipende con che occhi si guarda la cosa. O con l’occhio politico o con l’occhio del cittadino italiano che vede: disoccupazione in forte aumento (dati INPS), ricostruzione zone terremotate quasi a zero, problemi seri con l’Europa che rischia di portarci ai livelli della Grecia e della Spagna. Giudicate voi cosa serve di più a questo Paese.

Scritto da Emilio Magliano - Pubblicato sul numero 2 del 2017 nel "Il Corace"

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