venerdì 10 febbraio 2017

L PD SI SPACCA: PER IL PROPRIO MONDO E' DOLOROSO MA INEVITABILE

E venne così il giorno della resa dei conti (redde rationem) nel Partito Democratico con l’assemblea nazionale del 19 febbraio che ha sancito la spaccatura interna ed aperto le porte ad una scissione con parte di quella minoranza interna di sinistra, da sempre collocata contro il segretario, pressoché su ogni scelta fatta dallo stesso anche quando era presidente del consiglio.
Il rapporto tra il leader del partito ed ex premier e la sua minoranza interna di sinistra non è stato mai idilliaco, nemmeno quando Renzi ha colto il successo alle elezioni europee col partito al 41%, figurarsi quando si sono evidenziati problemi e si sono registrate sconfitte, fino al fatidico referendum costituzionale del 4 dicembre, perso nettamente dal premier, che ha avuto contro – tra i fautori del NO – quella parte di minoranza che di fatto è sempre stata all’opposizione del governo Renzi, boicottandone pesantemente politiche, riforme e progetti.

La minoranza PD ha sempre parlato di sinistra, rincorrendo fumose nostalgie del passato, senza però mai dare il senso di un approccio aggiornato alla realtà e complessità delle problematiche dell’attualità sociale e politica del Paese. Il semplice continuo riferimento alla sinistra, di per sé non è poi indice di volontà e capacità di rappresentare istanze e problemi dei più deboli e dei ceti popolari, ed infatti gli esponenti della c.d. sinistra PD non appaiono certo tra quelli che più abbiano realizzato nei fatti politiche di sinistra, usando per lo più la sigla solo per garantirsi carriere, ruoli, spazi, poltrone.
La verità è che Matteo Renzi è sempre stato visto come un alieno (ed un usurpatore) da parte di un ceto politico (per lo più post-comunista) che ha sempre considerato le altre culture (come quella cattolico-democratica) come subalterne, e che probabilmente non ha mai creduto fino in fondo alla novità rappresentata dal Partito Democratico sin dalla sua nascita, 10 anni or sono. In maniera diversa ed in situazioni diverse, è un po’ quello che è capitato anche con Romano Prodi.

Dopo il referendum costituzionale, e dimessosi Renzi da premier, il Partito Democratico non poteva continuare in una battaglia interna perenne, diventata peraltro stucchevole per tutta l’opinione pubblica ed incomprensibile soprattutto per iscritti ed elettori del partito. Ben venga pertanto un congresso in tempi brevi che consenta di selezionale una nuova classe dirigente e di presentarsi alle prossime scadenze elettorali con idee chiare e progetti ben definiti. Spiace che alcuni siano andati via (per andare dove, con chi e per fare cosa?), e con essi anche esponenti di primo piano del passato politico (come D’Alema e Bersani), ma un partito vive con regole chiare e soprattutto con un elementare principio democratico che è quello del rispetto di tutte le opinioni e – dopo la conta congressuale – anche della maggioranza votata, senza continue contrapposizioni da parte di chi è minoranza, e senza che quest’ultima saboti sistematicamente l’operato della dirigenza del partito e addirittura si ponga con posizioni ricattatorie.

Questo è purtroppo avvenuto e sta avvenendo in un PD il cui mondo è disorientato da beghe, spaccature e fuoriuscite che davvero non hanno alcun senso politico, se non quello di indebolire il centrosinistra rispetto alle altre due compagini contendenti (Movimento Cinque Stelle e Centro-Destra). Peraltro il tentativo di far apparire il PD di Renzi un qualcosa di diverso rispetto alle radici di sinistra che hanno contribuito alla sua fondazione è frutto di una bizzarra pretesa di chi si intesta spazi e storie che vanno ben oltre questo o quell’esponente: se ne sono andati D’Alema (sempre più rancoroso e sempre a capo da 20 anni di ogni congiura contro i leaders del momento) e Bersani (ma ve lo ricordate cosa riuscì a fare nel 2013 dopo le Elezioni Politiche?), ma figure autorevoli come Veltroni, Napolitano, Fassino, Finocchiaro – insieme a chi viene da altre storie, come Franceschini, Gentiloni e Renzi stesso, ed insieme a tutta una classe dirigente più giovane che vive con fastidio le vecchie appartenenze (Mogherini, Martina, Pinotti, Boschi, Orfini, Del Rio, ecc.) rappresentano una garanzia per un partito saldamente ancorato al mondo del centrosinistra, riformatore, non legato a vecchie nostalgie politicamente oggi improponibili, e che deve dimostrare di saper uscire dalle attuali sabbie mobili, riprendendo un’iniziativa politica forte, che guardi all’esterno ed ai grandissimi problemi della società italiana, e la smetta di guardare al proprio ombelico.

La situazione è difficile e non bella, e non solo per il futuro del Partito Democratico, ma per tutta la politica italiana, e ciò è secondo me la conseguenza della vittoria del NO al referendum, che ha di colpo fatto piombare la politica italiana nelle sabbie mobili del peggior passato, e che produrrà una difficilissima governabilità nel prossimo futuro, frutto di compromessi e mediazioni estenuanti (sempre che non vinca l’avventura targata Cinque Stelle): in questo quadro, che nel PD si faccia chiarezza e si elabori un chiaro progetto, è cosa auspicabile e pazienza se si è perso qualche pezzo di vecchia argenteria.

Scritto da Antonio Belliazzi - Pubblicato sul numero 2 del 2017 nel "Il Corace"

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