E venne così il giorno
della resa dei conti (redde rationem) nel Partito Democratico con
l’assemblea nazionale del 19 febbraio che ha sancito la spaccatura
interna ed aperto le porte ad una scissione con parte di quella
minoranza interna di sinistra, da sempre collocata contro il
segretario, pressoché su ogni scelta fatta dallo stesso anche quando
era presidente del consiglio.
Il rapporto tra il leader del partito
ed ex premier e la sua minoranza interna di sinistra non è stato mai
idilliaco, nemmeno quando Renzi ha colto il successo alle elezioni
europee col partito al 41%, figurarsi quando si sono evidenziati
problemi e si sono registrate sconfitte, fino al fatidico referendum
costituzionale del 4 dicembre, perso nettamente dal premier, che ha
avuto contro – tra i fautori del NO – quella parte di minoranza
che di fatto è sempre stata all’opposizione del governo Renzi,
boicottandone pesantemente politiche, riforme e progetti.
La
minoranza PD ha sempre parlato di sinistra, rincorrendo fumose
nostalgie del passato, senza però mai dare il senso di un approccio
aggiornato alla realtà e complessità delle problematiche
dell’attualità sociale e politica del Paese. Il semplice continuo
riferimento alla sinistra, di per sé non è poi indice di volontà e
capacità di rappresentare istanze e problemi dei più deboli e dei
ceti popolari, ed infatti gli esponenti della c.d. sinistra PD non
appaiono certo tra quelli che più abbiano realizzato nei fatti
politiche di sinistra, usando per lo più la sigla solo per
garantirsi carriere, ruoli, spazi, poltrone.
La verità è
che Matteo Renzi è sempre stato visto come un alieno (ed un
usurpatore) da parte di un ceto politico (per lo più post-comunista)
che ha sempre considerato le altre culture (come quella
cattolico-democratica) come subalterne, e che probabilmente non ha
mai creduto fino in fondo alla novità rappresentata dal Partito
Democratico sin dalla sua nascita, 10 anni or sono. In maniera
diversa ed in situazioni diverse, è un po’ quello che è capitato
anche con Romano Prodi.
Dopo il referendum costituzionale, e
dimessosi Renzi da premier, il Partito Democratico non poteva
continuare in una battaglia interna perenne, diventata peraltro
stucchevole per tutta l’opinione pubblica ed incomprensibile
soprattutto per iscritti ed elettori del partito. Ben venga pertanto
un congresso in tempi brevi che consenta di selezionale una nuova
classe dirigente e di presentarsi alle prossime scadenze elettorali
con idee chiare e progetti ben definiti. Spiace che alcuni siano
andati via (per andare dove, con chi e per fare cosa?), e con essi
anche esponenti di primo piano del passato politico (come D’Alema e
Bersani), ma un partito vive con regole chiare e soprattutto con un
elementare principio democratico che è quello del rispetto di tutte
le opinioni e – dopo la conta congressuale – anche della
maggioranza votata, senza continue contrapposizioni da parte di chi è
minoranza, e senza che quest’ultima saboti sistematicamente
l’operato della dirigenza del partito e addirittura si ponga con
posizioni ricattatorie.
Questo è purtroppo avvenuto e sta
avvenendo in un PD il cui mondo è disorientato da beghe, spaccature
e fuoriuscite che davvero non hanno alcun senso politico, se non
quello di indebolire il centrosinistra rispetto alle altre due
compagini contendenti (Movimento Cinque Stelle e Centro-Destra).
Peraltro il tentativo di far apparire il PD di Renzi un qualcosa di
diverso rispetto alle radici di sinistra che hanno contribuito alla
sua fondazione è frutto di una bizzarra pretesa di chi si intesta
spazi e storie che vanno ben oltre questo o quell’esponente: se ne
sono andati D’Alema (sempre più rancoroso e sempre a capo da 20
anni di ogni congiura contro i leaders del momento) e Bersani (ma ve
lo ricordate cosa riuscì a fare nel 2013 dopo le Elezioni
Politiche?), ma figure autorevoli come Veltroni, Napolitano, Fassino,
Finocchiaro – insieme a chi viene da altre storie, come
Franceschini, Gentiloni e Renzi stesso, ed insieme a tutta una classe
dirigente più giovane che vive con fastidio le vecchie appartenenze
(Mogherini, Martina, Pinotti, Boschi, Orfini, Del Rio, ecc.)
rappresentano una garanzia per un partito saldamente ancorato al
mondo del centrosinistra, riformatore, non legato a vecchie nostalgie
politicamente oggi improponibili, e che deve dimostrare di saper
uscire dalle attuali sabbie mobili, riprendendo un’iniziativa
politica forte, che guardi all’esterno ed ai grandissimi problemi
della società italiana, e la smetta di guardare al proprio ombelico.
La situazione è difficile e non bella, e non solo per il futuro del
Partito Democratico, ma per tutta la politica
italiana, e ciò è secondo me la conseguenza della vittoria del NO
al referendum, che ha di colpo fatto piombare la politica italiana
nelle sabbie mobili del peggior passato, e che produrrà una
difficilissima governabilità nel prossimo futuro, frutto di
compromessi e mediazioni estenuanti (sempre che non vinca l’avventura
targata Cinque Stelle): in questo quadro, che nel PD si faccia
chiarezza e si elabori un chiaro progetto, è cosa auspicabile e
pazienza se si è perso qualche pezzo di vecchia argenteria.
Nessun commento:
Posta un commento