Nel poco tempo libero che
ho mi dedico ad aiutare famiglie che devono tirare a campare (e
spesso, inspiegabilmente, ce la fanno) con quattro miseri soldi in
croce, raggranellati attraverso lavori a singhiozzo, aiuti sociali e
qualche gesto di carità. E mi si è dischiuso davanti un mondo che
vi voglio raccontare. Premesso che uso poco e mal volentieri la
parola ‘povertà’ (infatti eviterò di farlo anche questa volta),
vorrei specificare che non sto parlando dei working poors (che
possono contare su un’occupazione, magari parziale, magari
sottopagata) né di quelli che perdono progressivamente benessere.
Parlo di coloro che hanno perso il lavoro o non lo hanno avuto per
molto tempo. E che oggi lo cercano. Una nazione nella nazione di
donne e uomini che sudano fatica di vivere. In silenzio. Pochi tra
loro sanno come cercare un lavoro. Sì, perché un metodo per la
ricerca del lavoro c’è e dà i suoi frutti, se applicato. Quello
che mi sorprende, semmai, è che anche quelli che lavorano per far
trovare lavoro agli altri non sappiano cosa fare. E, peggio ancora,
alcuni di loro non ci credono più.
Se cominciamo a studiare la
rivoluzione che ha travolto il nostro mondo della ricerca del lavoro,
ci accorgiamo di ciò che di diverso c’è, oltre il numero,
apparentemente costante, di 23 milioni di occupati. In 10 anni sono
cambiati i lavori, le forme e i livelli di retribuzione. Tutto un
altro paese che lavora. Udite udite. Servono sempre meno operai nelle
manifatture (-400.000) e non ce ne facciamo più nulla di molti
operai edili (se muoiono le imprese edili diventano inutili anche
500.000 loro lavoratori). Aggiungiamo 200.000 dipendenti pubblici e
dell’esercito e superiamo di slancio il milione di persone che in
10 anni non lavora più. Scompaiono dei lavori. E’ un fatto, è
sempre stato così ma oggi è tutto così veloce…
Se non hai una
specializzazione sembri non interessare più al mondo del lavoro.
Operai generici, senza qualifiche. Impiegati generici, senza
specializzazioni. Addetti senza preparazione specifica. Lavoratori
che non conoscono altre lingue. Uomini e donne senza: non vi vuole
più nessuno. Cercate pure quello che non c’è più, fino a quando
non vi vinceranno lo sconforto, il senso di fallimento e
quell’energia che oggi giorno si assottiglia. Un destino che non è
soltanto dei ‘senza’, credete.
Nel 2011 scrivevo che sarebbero
scomparsi decine di migliaia di bancari. Non a causa della crisi ma
approfittando della crisi, perché il modello economico adottato
dalle nostre banche non era sostenibile. Avrei voluto scriverlo io -
al posto dell’Economist - quel titolo di articolo che recitava: “In
Italia ci sono più banche che pizzerie!”. Cambia il modello
economico, molte persone non lavorano più. E non sanno perché.
Vince il cellulare con tutte le sue funzioni. Lo stringiamo tra le
mani e non capiamo quanto determini indirettamente la mancanza di
lavoro di altre persone che conosciamo e che magari confortiamo
attraverso quello stesso telefono. Ci sono lavori che, per adesso,
tirano. Un po’ di cuochi, qualche addetto alla ristorazione (potete
immaginare quanto pagati) ma soprattutto molti operatori socio
sanitari, il vero boom atteso di un paese che statisticamente
invecchia. Ci sono infine lavori ‘sicuri’. Credetemi, ad oggi
veramente sicuri. Hanno nomi inglesi, naturalmente, sconosciuti ai
più: data scientist, blockchain expert, chief digital expert tra gli
altri: non più una nicchia ma molto materiale umano indispensabile
per assecondare e potenziare le evoluzioni tecnologiche. Serve
qualcuno che sappia farsene qualcosa dei big data, di tutte le
informazioni, cioè, che ognuno di noi sparge sul web, qualcuno che
lavori sulla tecnologia sottostante le criptovalute (blockchain) e
qualcuno che traghetti le imprese nell’inevitabile processo di
trasformazione digitale. E poi chi si occupa di sicurezza informatica
(cybersecurity expert), chi costruisce business digitali…
Merce
preziosa per la quale si è disposti a pagare molto. Cambiano i
lavori, cambiano le forme contrattuali, ovviamente. Meno lavoratori
indipendenti e anche meno dipendenti, perché sono sempre più i
lavoratori ‘a termine’ e il termine si accorcia, nel tempo, tra
l’altro. Impazza la gig economy, “l’economia dei lavoretti”,
tradurrebbe qualcuno. E il diritto del lavoro insegue il mondo dei
lavori opachi che spuntano come funghi. E non ce la fa a star dietro
a questo mondo di bassi salari che corre veloce.
Io non ho una
ricetta, vedo quello che vedete voi. Sento invocare il rilancio dei
nostri tesori sommersi, tra i quali il turismo e l’agroalimentare.
Protetti e rilanciati dalle nuove tecnologie, ovviamente. Una ricetta
non ce l’ho ma, quando guardo le persone che incontro, sento che
non sono poi così inutili. Certo conviene smettere di cercare in
loro ‘quello che manca’ e provare a ripartire dai talenti che
hanno, spesso importanti. Sento dire di molti adulti ‘fragili’
che non hanno risorse (chi frequenta il sociale incontra
quotidianamente questa espressione): credo invece che, presi al ritmo
a cui andiamo, non siamo più capaci di indossare gli occhiali che ci
fanno vedere quello che sanno e che possono fare gli altri, magari
sopperendo al talento con maggior metodo e costanza. Non più ‘quelli
che sono fuori’, non più ‘uomini senza’ ma ‘uomini con’.
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