lunedì 5 febbraio 2018

UOMINI SENZA

Nel poco tempo libero che ho mi dedico ad aiutare famiglie che devono tirare a campare (e spesso, inspiegabilmente, ce la fanno) con quattro miseri soldi in croce, raggranellati attraverso lavori a singhiozzo, aiuti sociali e qualche gesto di carità. E mi si è dischiuso davanti un mondo che vi voglio raccontare. Premesso che uso poco e mal volentieri la parola ‘povertà’ (infatti eviterò di farlo anche questa volta), vorrei specificare che non sto parlando dei working poors (che possono contare su un’occupazione, magari parziale, magari sottopagata) né di quelli che perdono progressivamente benessere.
Parlo di coloro che hanno perso il lavoro o non lo hanno avuto per molto tempo. E che oggi lo cercano. Una nazione nella nazione di donne e uomini che sudano fatica di vivere. In silenzio. Pochi tra loro sanno come cercare un lavoro. Sì, perché un metodo per la ricerca del lavoro c’è e dà i suoi frutti, se applicato. Quello che mi sorprende, semmai, è che anche quelli che lavorano per far trovare lavoro agli altri non sappiano cosa fare. E, peggio ancora, alcuni di loro non ci credono più.

Se cominciamo a studiare la rivoluzione che ha travolto il nostro mondo della ricerca del lavoro, ci accorgiamo di ciò che di diverso c’è, oltre il numero, apparentemente costante, di 23 milioni di occupati. In 10 anni sono cambiati i lavori, le forme e i livelli di retribuzione. Tutto un altro paese che lavora. Udite udite. Servono sempre meno operai nelle manifatture (-400.000) e non ce ne facciamo più nulla di molti operai edili (se muoiono le imprese edili diventano inutili anche 500.000 loro lavoratori). Aggiungiamo 200.000 dipendenti pubblici e dell’esercito e superiamo di slancio il milione di persone che in 10 anni non lavora più. Scompaiono dei lavori. E’ un fatto, è sempre stato così ma oggi è tutto così veloce…
Se non hai una specializzazione sembri non interessare più al mondo del lavoro. Operai generici, senza qualifiche. Impiegati generici, senza specializzazioni. Addetti senza preparazione specifica. Lavoratori che non conoscono altre lingue. Uomini e donne senza: non vi vuole più nessuno. Cercate pure quello che non c’è più, fino a quando non vi vinceranno lo sconforto, il senso di fallimento e quell’energia che oggi giorno si assottiglia. Un destino che non è soltanto dei ‘senza’, credete.

Nel 2011 scrivevo che sarebbero scomparsi decine di migliaia di bancari. Non a causa della crisi ma approfittando della crisi, perché il modello economico adottato dalle nostre banche non era sostenibile. Avrei voluto scriverlo io - al posto dell’Economist - quel titolo di articolo che recitava: “In Italia ci sono più banche che pizzerie!”. Cambia il modello economico, molte persone non lavorano più. E non sanno perché.
Vince il cellulare con tutte le sue funzioni. Lo stringiamo tra le mani e non capiamo quanto determini indirettamente la mancanza di lavoro di altre persone che conosciamo e che magari confortiamo attraverso quello stesso telefono. Ci sono lavori che, per adesso, tirano. Un po’ di cuochi, qualche addetto alla ristorazione (potete immaginare quanto pagati) ma soprattutto molti operatori socio sanitari, il vero boom atteso di un paese che statisticamente invecchia. Ci sono infine lavori ‘sicuri’. Credetemi, ad oggi veramente sicuri. Hanno nomi inglesi, naturalmente, sconosciuti ai più: data scientist, blockchain expert, chief digital expert tra gli altri: non più una nicchia ma molto materiale umano indispensabile per assecondare e potenziare le evoluzioni tecnologiche. Serve qualcuno che sappia farsene qualcosa dei big data, di tutte le informazioni, cioè, che ognuno di noi sparge sul web, qualcuno che lavori sulla tecnologia sottostante le criptovalute (blockchain) e qualcuno che traghetti le imprese nell’inevitabile processo di trasformazione digitale. E poi chi si occupa di sicurezza informatica (cybersecurity expert), chi costruisce business digitali…
Merce preziosa per la quale si è disposti a pagare molto. Cambiano i lavori, cambiano le forme contrattuali, ovviamente. Meno lavoratori indipendenti e anche meno dipendenti, perché sono sempre più i lavoratori ‘a termine’ e il termine si accorcia, nel tempo, tra l’altro. Impazza la gig economy, “l’economia dei lavoretti”, tradurrebbe qualcuno. E il diritto del lavoro insegue il mondo dei lavori opachi che spuntano come funghi. E non ce la fa a star dietro a questo mondo di bassi salari che corre veloce.

Io non ho una ricetta, vedo quello che vedete voi. Sento invocare il rilancio dei nostri tesori sommersi, tra i quali il turismo e l’agroalimentare. Protetti e rilanciati dalle nuove tecnologie, ovviamente. Una ricetta non ce l’ho ma, quando guardo le persone che incontro, sento che non sono poi così inutili. Certo conviene smettere di cercare in loro ‘quello che manca’ e provare a ripartire dai talenti che hanno, spesso importanti. Sento dire di molti adulti ‘fragili’ che non hanno risorse (chi frequenta il sociale incontra quotidianamente questa espressione): credo invece che, presi al ritmo a cui andiamo, non siamo più capaci di indossare gli occhiali che ci fanno vedere quello che sanno e che possono fare gli altri, magari sopperendo al talento con maggior metodo e costanza. Non più ‘quelli che sono fuori’, non più ‘uomini senza’ ma ‘uomini con’.

Scritto da Antonio Cajelli - Pubblicato sul numero 1 del 2018 nel "Il Corace"

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