giovedì 9 aprile 2020

COVID-19: UN “VACCINO” PER L'AMBIENTE?

Cari lettori, quello che stiamo attraversando nell’ultimo mese è il più grave periodo di emergenza che l’Italia non ricordava dal 1945, coinciso con la fine dell’ultimo conflitto bellico, la seconda guerra mondiale, e dove al posto dei cannoni, delle bombe, delle artiglierie, c’è un nemico invisibile, centinaia di volte più piccolo di un globulo rosso, che sta mettendo a dura prova tutti noi, e che purtroppo ci sta lasciando anche tante vite spezzate, numeri che crescono di giorno in giorno, una guerra silente e maledetta. Non è intenzione, esprimere qui fra queste righe, il mio pensiero sul dire se si poteva o non si poteva evitare questa infezione o contenere molto più rapidamente , se c'è o non c'è un colpevole, ma un pensiero va a tutti coloro che incessantemente stanno lottando giorno dopo giorno per far sì che possiamo uscirne il prima possibile vittoriosi, ed un grazie infinito va a medici, infermieri, volontari, forze dell’ordine, protezione civile e tutti i coordinatori di questa emergenza compreso chi opera nel nostro comune. 

Da architetto paesaggista e legato a tematiche ambientali, volevo concentrarmi sul come il nostro pianeta ne stia risentendo di questo lungo periodo iniziato prima in Cina ed ora spostatosi nella maggior parte dei paesi occidentali. Tutti voi avranno letto in questi giorni, come la nostra quarantena forzata, il limitare gli spostamenti, la chiusura di poli ed attività industriali, ma anche di parchi, giardini, ville storiche, spiagge… stiano recando benefici all’ambiente, un paradosso se si pensa alle condizioni di salute critiche in cui versa la Terra in questo secolo.
In poche parole la natura si sta riappropriando dei suoi spazi, ma se da un lato dobbiamo stare attenti a evitare l’effetto “rimbalzo” una volta finita la crisi, dall’altro dobbiamo prendere coscienza che cambiare è possibile, sia individualmente che collettivamente. Abbiamo visto tutti in questi giorni rimbalzare sui social le foto e i video dei fenicotteri e dei cigni a Milano, dei delfini a Cagliari, dei pesci che nuotano nelle limpide acque dei canali veneziani. Immagini suggestive che mostrano come potrebbero essere le nostre città se solo non fossimo così invasivi. 


«La natura si riappropria dei suoi spazi» è il commento più diffuso, ed è vero, ma quali sono i reali benefici di questa situazione per l’ambiente, e soprattutto quanto dureranno? Il ritorno di animali selvatici in centri abitati di solito molto popolati, rumorosi ed inquinati è solo una delle conseguenze dello stop forzato imposto dall’emergenza coronavirus. Dalle osservazioni satellitari realizzate nelle ultime settimane dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA), emerge infatti come le emissioni di biossido di azoto (NO2) uno dei principali gas inquinanti siano notevolmente diminuite in particolare nell’Italia settentrionale. In altre parole in una delle aree più inquinate del Paese ovvero la pianura padana, la concentrazione di NO2 è calata del 10% da metà febbraio a oggi. Un dato che fa ben sperare, ma che va contestualizzato per capire quanto può davvero impattare sul riscaldamento globale. L’inquinamento dell’aria, infatti, non dipende solo dalle emissioni, ma anche da fattori meteorologici. L’improvvisa e continuata riduzione del traffico ha certamente un effetto sulla qualità dell’aria, ma bisogna tenere conto che i mesi di gennaio e febbraio, un po’ per via delle maggiori emissioni da riscaldamento, un po’ per le condizioni generali (velocità del vento, stabilità atmosferica, ecc.) mediamente più sfavorevoli, sono sempre caratterizzati da maggiori concentrazioni di NO2 e PM10, destinate a calare in primavera.
Insomma, poche settimane non bastano: se nell’immediato la riduzione del traffico e lo stop di molte attività hanno un (lieve) impatto positivo sull’ambiente, nel lungo periodo l’effetto è ancora così ridotto da risultare addirittura meno significativo di quello causato dall’aumento delle temperature per motivi stagionali. E questo si sta verificando anche in altre aree del mondo, una tra tante la Cina dove tutto è iniziato, nella nazione piu inquinata della Terra, dove ora i cieli sono azzurri e limpidi e la qualità dell’aria ha avuto un miglioramento che non si registrava da tanti anni. Insomma paradossalmente si può dire che il coronavirus è attualmente un “vaccino” involontario per il nostro ecosistema, in attesa di trovare un vaccino per noi in grado di contrastarlo. 

In conclusione cosa possiamo fare una volta passata la crisi? Cigni, fenicotteri, delfini e acque limpide sono dunque solo un miraggio? Affatto. Sono un monito e una presa di coscienza. Il primo è far sì che questi “effetti collaterali” non abbiano la durata di un post sui social: qualora l’emergenza coronavirus andasse avanti ancora per molto e con essa la riduzione delle emissioni, dovremo fare in modo di evitare il “rimbalzo” delle stesse una volta superata la crisi. La differenza la faranno le risposte che il mondo politico e finanziario metteranno sul tavolo per fronteggiare la crisi economica che si intravvede all’orizzonte. La seconda è che modificare le nostre abitudini, anche in maniera improvvisa e radicale, è possibile sia individualmente che collettivamente. Tutti speriamo che il coronavirus venga debellato il prima possibile, e quando avverrà ci porteremo a casa non solo un senso di sollievo, ma anche di consapevolezza che in caso di pericolo imminente siamo in grado di reagire, di adottare misure drastiche, di unire le forze per un intento comune. Come quello di arginare le conseguenze dei cambiamenti climatici. Non si tratta di un’ipotesi astratta, ma di una possibilità concreta. L’introduzione forzata dello smart working, fino a poche settimane fa baluardo di modernità e privilegio di poche aziende “illuminate”, è un esempio perfetto: il lavoro agile non solo abbatte i costi per il datore di lavoro, ma riduce sensibilmente il traffico quotidiano. Perché abbandonarlo una volta terminata la crisi? 

Scritto da Fernando Bernardi 

Pubblicato sul numero 3 del 2020 del "Il Corace"

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