venerdì 10 aprile 2020

SENZA UN OSPEDALE, SARÀ SEMPRE UNA GUERRA PERSA!

Mi chiamo Giovanni, sono un manager, e per lavoro giro molto per lungo e per largo l’Italia. Tra la metà del mese di gennaio e quella del mese di febbraio sono stato per lavoro, più di una volta a Milano, Bergamo e Brescia, per poi tornare sempre ogni fine settimana nel mio bel paese pontino, che è anche il mio paese natale; perché a Cori fino a quando non chiusero l’ospedale, si poteva nascere ancora. Cori è un paese che amo tanto, da non perdere occasione di citare orgogliosamente e di vantare negli incontri che ho con i miei colleghi, tra un meeting e l’altro.

Questa volta però il mio ritorno è stato diverso, un po’ di ansia devo dire il vero me la sentivo, ma non sapevo bene da cosa derivasse. D’altra parte, gli affari in quel territorio d’oro della Lombardia, erano andati bene in questi primi giorni dell’anno, pertanto, non avevo motivo di sentirmi strano in quella maniera. Sta di fatto che però non appena rientrato dalla Lombardia il 21 Febbraio, neanche dopo un paio di giorni, ho iniziato ad accusare qualche piccolo malessere, quelli tipici della stagione invernale, dove, per uno come me che è sempre molto attento a tutto e super attivo, basta un “Vivin C” per tornare subito in forma.

Ma questa volta i sintomi erano diversi, ma tutti mi dicevano la stessa cosa: “sono i classici sintomi di una semplice influenza”. Allora pur non sentendomi bene come sempre, ho comunque continuato a fare tutto quello che facevo solitamente quando tornavo a trascorrere il weekend a casa. Il sabato mattina corsetta in città con i miei amici più sportivi, caffettino al bar con i “vecchietti” del paese, pranzo a casa con il mio “amore”, pomeriggio all’oratorio, e alle 18.00 l’immancabile aperitivo con i miei amici di sempre, quelli compagnoni, quelli che ti difenderebbero a dorso nudo dal freddo che c’è in inverno, ma anche da quel sogno maledetto che il freddo te lo fa sentire doppio.
E quello che mi è accaduto successivamente è paragonabile proprio ad un brutto sogno. Durante quella stessa notte, infatti, alcuni brividi di freddo, mi preannunciarono la febbre in ascesa, la respirazione si fece sempre più affannata, uno stato di spossatezza ormai mi pervadeva su tutto il corpo, la diarrea e la congestione nasale non mi facevano chiudere occhio.

Nel frattempo, su tutti i telegiornali nazionali della notte, si iniziava a parlare di quel paesino della Lombardia, che fino a quel momento io non conoscevo neanche, ma che invece, avrei imparato a conoscere bene, perché da lì a qualche ora, sarebbe stato chiuso preventivamente dentro una zona rossa, perché ritenuto essere con la presenza di un paziente zero contagiato dal coronavirus, un primo focolaio da tenere sotto controllo sul nostro territorio nazionale.

Il paese era Codogno, e il paziente zero era Mattia. E i sintomi erano gli stessi di quelli che io iniziavo ad avvertire. Ma non capendo la gravità, in quella notte apparentemente tranquilla trascorsa nella mia casa del mio piccolo comune di provincia di circa 10.000 abitanti, stava covando in me un virus che non poteva essere più considerato come una semplice influenza. 
E proprio perché non era una influenza, il mio naso continuava a gocciolare, il respiro diventava sempre più affannoso e quella sensazione di “fame d’aria” iniziava ad essere sempre più preoccupante. Mia moglie allertata chiamò al telefono il medico curante, che dopo un’ora mi visitò e decise che era meglio che mi fossi rivolto al Pronto Soccorso per una lastra di verifica. Ma il primo pronto soccorso più vicino alla mia città dopo la chiusura del suo pronto soccorso era quello della città di Latina, distante da Cori circa trenta minuti. Tra mezz’ora di attesa dell’ambulanza e altrettanta di viaggio per recarsi al nosocomio del Santa Maria Goretti, dopo un triage durato sei ore, finalmente mi fanno entrare e dopo altre quattro ore mi danno il responso: positivo al Covid-19. Resto allibito e penso subito a tutte quelle tante persone che avevo incontrato in quelle ore precedenti nel mio bel paesino, dove fino al giorno prima avevo girato con il virus in latenza. Ma nemmeno un istante dopo che ho appreso la notizia della mia positività, che già i primi casi vennero alla luce e le paure tra i miei concittadini non tardarono a farsi sentire, visto la celerità con la quale il virus riuscì a mia insaputa, a contagiare chiunque fosse venuto a contatto con me in quelle ore. Dopo due giorni viene ricoverata mia moglie, poi i miei amici e poi di seguito il Sindaco, il parroco e il medico di famiglia, da far incominciare un via vai continuo di ambulanze che da Cori iniziarono a portare i pazienti all’Ospedale di Latina, ma ben presto non ci furono più ambulanze e il tempo era sempre più ridotto al minimo. Tra il trasporto di un paziente, la sanificazione dell’ambulanza e dei suoi operatori e il viaggio di andata e ritorno, non si faceva più in tempo a salvare vite.

Per fortuna, tutta questa vicenda non è altro che un brutto sogno inventato, così come è ovviamente inventato il nome del protagonista del racconto e della storia che questo ha vissuto per noi, per consentirci di fare un punto focale sull’importanza che avrebbe la struttura ospedaliera di Cori, in un momento sanitario così critico, per tutta la nazione, per farci superare questo momento difficile, con molta meno angoscia di quella che invece stiamo vivendo, sapendo che, quella porta di quel ospedale di Cori, è ancora chiusa.

“Per combattere un’epidemia sono indispensabili rapidità e strategia. Più si tarda, più si rischia la sconfitta”. Questo è quanto ha affermato qualche mese fa Roberto Burioni, noto medico, professore ordinario di Microbiologia e Virologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Parole che pesano quanto i massi di un muro ciclopico che la città di Cori conosce molto bene, a cui non può fare ammenda, per convincersi che non può esistere nella nostra epoca, una città senza un proprio ospedale. 
Perché per una città in guerra senza un ospedale, sarà sempre una guerra persa.

Scritto da Emanuel Acciarito

Pubblicato sul numero 3 del 2020 del "Il Corace"

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