martedì 2 novembre 2021

HO INGOIATO UNA LUNA DI FERRO

Nell’epoca degli aperitivi globalizzati e delle gambe incrociate sotto il tavolo a godersi ampie e luminose piazze da souvenir, è quasi inopportuno e anti-storico pronunciare la parola “operaio”. Essa suona come una bestemmia, richiama alla mente idee, utopie, deserti di arti meccanici a dare nuovo corso alla vita dell’uomo. Eppure quello che indossiamo, gli strumenti che usiamo, il cibo che mangiamo, il posto in cui viviamo, è frutto del lavoro manuale di qualcuno, geograficamente e culturalmente meno distante di quello che crediamo. Come insegna il vecchio mercante Shylock, egli esiste al pari di altri, con occhi, mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni. E da queste passioni, da questa sensibilità si afferma in Cina, negli ultimi anni, una nuova tendenza per un’antica voce, quella degli oppressi. La letteratura di maniera, piegata soltanto alle constatazioni intellettuali o alle pene d’amore, sarà sempre e soltanto il pretesto di chi non ha vissuto, di chi non ha giudicato, di chi ha creduto di poter evitare il giudizio della storia o di rimandarlo in chissà quale anfratto immaginario.

Eppure esiste qualcuno che si sporca le mani di metalli come di inchiostro. È la storia degli operai che hanno deciso di aprire più blog e di scrivere in versi le proprie condizioni, quegli operai che producono i telefoni destinati al mercato, probabilmente uno dei tanti smartphone con il quale state ascoltando questa puntata di Sguardi InVersi. Tutto è connesso da una rete umana, molto prima che Internet avesse luogo. È per esempio la storia di Xu Lizhi, il più celebre poeta-operaio, uno dei tanti migranti dalla realtà rurale cinese in cerca di un lavoro nella città di Foxconn, dove ha luogo la grande fabbrica elettronica di Shenzen, famosa non solo per la produzione di prodotti Apple, ma per un’ondata di suicidi nel 2010. Xu è morto suicida. Emerge dai suoi versi un’estetica ferrosa, in conflitto con quel soggetto, la luna, così propriamente romantico e poetico nella tradizione universale. Parliamo di orari di lavoro infernali, di assenza di sicurezza sul lavoro, di acqua bevuta dai fiumi intrisi di sostanze inquinanti e aria velenosa. Parliamo di poesie distanti da quel realismo magico incarnato dall’ultima narrativa cinese, scritte da giovani distanti da un livello d’istruzione elevato, ma non meno degne di incarnare una voce dimenticata, quella degli uomini e delle donne in lotta per un mondo migliore.

E allora volgiamo lo sguardo qui, a un cartone come Z la Formica: la trama parla di una formica cui sta stretta la vita operaia, ma, per una serie di disavventure, arriva alla fine ad accettare il proprio ruolo, quello di lavorare per la colonia, per la società. Eppure, ci chiediamo, qual è il prezzo? Perché io, formica, devo accettare, che mi piaccia o no, un ruolo? Perché invece non proporre un modello alternativo di colonia, di società? Perché?

Chiudiamo con i versi di Xu:
Ho ingoiato una luna fatta di ferro/Certi la chiamano chiodo
Ho ingoiato scarichi industriali,/certificati di disoccupazione
I giovani ingobbiti sui macchinari/muoiono prima del tempo
Ho ingoiato ritmi disumani/e destituzione
Ho ingoiato passaggi pedonali,/una vita ricoperta di ruggine
Non posso ingoiare più/Tutto quello che ho ingerito

Scritto da Fabio Appetito - Pubblicato sul numero 8 del 2021 del "Il Corace"


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