martedì 2 novembre 2021

IL GIOCO NEI BAMBINI

Il gioco è presente nella vita del bambino già nei primissimi mesi di vita e la caratterizza negli anni successivi. Una delle maggiori attrattive della scuola per i bambini è proprio la prospettiva di giocare. Definire il gioco infantile è tutt’altro che facile, poiché quasi tutte le azioni di un bambino, con i più vari oggetti e nelle più diverse situazioni, possono assumere carattere giocoso: pensate alla disperazione di una mamma che va di fretta la mattina, mentre Astra, 5 anni, trasforma la semplice azione di vestirsi in una lunga scena teatrale e Vincenzo, 3 anni, decide di utilizzare calzini e scarpe come proiettili indirizzati alla sorella. Molti autori concordano nel non ritenere il gioco una classe di comportamenti a sé stanti, ma una disposizione, o meglio un insieme di disposizioni, applicabili a qualunque azione; possiamo riconoscere il presentarsi di questa disposizione da vari criteri: l’azione del bambino 

  1. non è del tutto funzionale al contesto in cui appare; 
  2. è spontanea, piacevole, gratificante, o volontaria; 
  3. differisce da comportamenti più seri nella modalità (ad esempio esagerata) o nel tempismo (ad esempio compare nella vita prima del momento in cui ne occorrerà la versione più seria); 
  4. è ripetuta, ma non in modo anormale e rigidamente stereotipato (come nel dondolio da stress); 
  5. ha inizio in assenza di un disagio acuto o cronico. 
Il gioco inoltre ha specifiche caratteristiche: motivazione intrinseca (non esiste altra motivazione che il gioco stesso: si gioca per il semplice piacere di farlo), libertà dai vincoli (le regole vengono negoziate dai giocatori stessi che si accordano sul come giocare insieme), coinvolgimento attivo (il gioco è differente da altri stati passivi, come il dormire) e molte altre funzioni. Vari studiosi considerano il gioco un importante fattore di sviluppo perché permette al bambino di sperimentare prima e di consolidare poi nuove competenze sia cognitive sia socioaffettive. 

Secondo Piaget lo sviluppo del gioco segue lo sviluppo stadiale da lui individuato e coinvolge la funzione cognitiva dell’assimilazione, come quando i bambini mostrano un gran piacere nel manipolare gli oggetti usando schemi che già possiedono senza modificarli, ad esempio quando mettono tutto in bocca, o buttano per terra una cosa dopo l’altra. In questi casi è l’assimilazione che predomina e l’attività può essere definita secondo Piaget come gioco. Al contrario succede quando i bambini cercano di imitare quello che vedono fare ad altri (come battere le mani, radersi, telefonare), in cui l’accomodamento prevale sull’assimilazione, in quanto gli oggetti esterni modificano gli schemi d’azione del soggetto senza che questi a sua volta utilizzi gli oggetti stessi. La funzione dell’imitazione è essenzialmente quella di arricchire il patrimonio di schemi, tramite esempi, diciamo così, preconfezionati, ed è necessaria per l’acquisizione del linguaggio, perché consente ai bambini di appropriarsi delle parole della loro lingua sentendole pronunciare da altri. Il gioco invece assicura il consolidamento degli schemi già acquisiti e gratifica chi vi si dedica (a qualsiasi età) mediante l’esercizio di attività che padroneggia bene e grazie a una serie di altre funzioni, di conseguenza rafforza il senso di autoefficacia. 


Una visione diversa del gioco l’ha formulata Vygotskij, il quale valorizza gli aspetti affettivi e motivazionali oltre a quelli cognitivi. Egli ritiene che il gioco e le sue regole sono per il bambino e il ragazzo una attività seria. Il mondo immaginario creato dai bambini nel gioco di fantasia non è arbitrario, ma è governato da regole, che diventano oggetto di attenzione. Il gioco permette di liberarsi dai vincoli situazionali: così se nella realtà, ad esempio, una porta deve essere aperta/chiusa, un campanello suonato, nel gioco l’azione “nasce dalle idee” più che dalle cose: un bastone può diventare un cavallo e un pezzo di stoffa può essere un neonato. Il gioco rappresenta quindi una fase di transizione nel processo di separazione del significato dall'oggetto reale; quando il bambino sarà più grande non avrà più bisogno di un oggetto come supporto al processo di creazione simbolica, ma attraverso le parole potrà inventare tutte le situazioni immaginarie che vorrà. Infine per Vygotskij, il gioco collocandosi nell'ambito del possibile, permette l’ingresso da parte del bambino in una zona di sviluppo prossimale; infatti per Vygotskij, nel gioco il bambino si comporta sempre al di sopra del suo comportamento quotidiano, perché il gioco contiene tutte le tendenze evolutive in forma condensata ed è una quindi fonte principale di sviluppo. Uno studioso che ha posto particolare attenzione al gioco, analizzandone il ruolo nello sviluppo del sé e sociale, è George Herbert Mead [1934], da alcuni considerato il padre della psicologia sociale e della corrente teorica chiamata interazionismo simbolico. In questa prospettiva, gli scambi sociali sono possibili perché gli individui condividono dei significati, in primis quello delle parole nel corso della comunicazione; e tale condivisione non si fonda su una capacità preesistente, ma viene costruita nel corso dello sviluppo. Per interagire efficacemente bisogna prevedere il significato che le proprie azioni avranno per l’altro e comprendere che cosa l’altro intende con le sue; bisogna quindi, in certo qual modo, essere contemporaneamente sé stessi e l’altro. Secondo Mead, questa assunzione del punto di vista di un altro, o role-taking (alla lettera «assunzione di ruolo»), viene appresa, oltre che attraverso gli scambi interpersonali, attraverso i giochi di finzione. In questo tipo di giochi, il bambino impersona più ruoli: vende e compra, o si rivolge a sé stesso come fosse un insegnante, o ancora si finge un poliziotto per ammonire un pupazzo. 

Secondo Mead, questa è la forma più semplice dell’essere un altro, in cui il bambino dice qualcosa in veste di un soggetto e risponde in veste di un altro. Il gioco di finzione permetterebbe quindi al bambino di identificarsi con persone per lui rilevanti, e di anticipare, nella sperimentazione pratica, le azioni-reazioni implicate dagli scambi interpersonali in situazioni diverse, specialmente quelle emotivamente salienti. Piaget ha descritto lo sviluppo del gioco facendo riferimento agli stadi da lui individuati. Nello stadio sensomotorio è presente il gioco di esercizio, che consiste nell’esercitazione degli schemi d’azione per il piacere di padroneggiarli, con la messa in atto di una serie di condotte a vuoto, senza altro fine che il puro piacere del funzionamento. 

Inizialmente questi “esercizi” sono ripetizioni di azioni semplici, ad esempio, emettere dei suoni, osservare i movimenti delle proprie mani, scuotere un sonaglio, segnalando il piacere con il sorriso. Successivamente sono esercizi più complessi, come allineare oggetti e travasare, senza alcuno scopo. Infine, gli esercizi complessi vengono subordinati ad uno scopo come saltare sempre più lontano. Verso la fine dello stadio sensomotorio compare il gioco simbolico, che caratterizza lo stadio preoperatorio. Tale comparsa è graduale, e inizia già alla fine del primo anno di vita: tra gli 8 e i 12 mesi i bambini cominciano a ritualizzare alcuni schemi, cioè a usarli fuori del loro contesto abituale (ad esempio, a metà mattina, vedendo il loro guanciale, possono eseguire per gioco la sequenza di gesti che fanno di solito prima di addormentarsi). Tale costruzione dei rituali continua fino ai 18 mesi. Dopo i 18 mesi, la funzione simbolica si manifesta anche nel gioco: i bambini diventano capaci di giochi simbolici o di finzione: fingono di mangiare, bere, dormire, lavarsi. Questi giochi si distinguono dai rituali degli stadi precedenti perché, mentre prima era la vista di un oggetto, ad esempio del cuscino, che induceva i bambini a riprodurre gli schemi a esso adeguati (porvi sopra la testa, chiudere gli occhi), ora non è più necessaria una corrispondenza tra gli oggetti usati e lo schema. I bambini possono fingere che un oggetto sia un altro, usando ad esempio un cubo come se fosse una tazza o un’automobile: lo trattano cioè come un simbolo. Durante i primi anni dell’età prescolare aumentano la quantità di tempo che i bambini dedicano al gioco simbolico o di finzione e la complessità e varietà di forme che questo assume. Nel corso dell’età scolare compaiono i giochi di regole, che tuttavia non soppiantano quelli di fantasia. 

Secondo Piaget i giochi con regole, che compaiono nello stadio operatorio concreto, soddisfano due criteri: 
  1. coinvolgere almeno due partecipanti in competizione tra loro; 
  2. il cui comportamento è regolato da un codice prestabilito. 
I giochi con regole sono convenzionali, le regole rappresentano l’essenza del gioco, sono esplicite, e i ruoli sono definiti a priori; inoltre hanno carattere competitivo. Negli stadi precedenti i bambini non tengono conto delle regole (2-3 anni) o le assumono senza comprenderne lo scopo (3-5 anni), mentre a partire dai 7-8 anni, i bambini capiscono che è necessario cooperare per garantire il rispetto delle regole ed assicurare la validità della gara; ciò è possibile perché hanno preso coscienza della competizione. Dagli 11-12 anni, i bambini riescono a pattuire le regole con chiarezza e prendono gusto a codificarle minuziosamente, interessandosi di tutte le possibili varianti e al diverso carattere che il gioco così assume. 

Piaget analizza il ruolo del gioco di regole nello sviluppo morale. Come i giochi delle età precedenti, anche i giochi di regole sono importanti per lo sviluppo sociale, e in particolare per lo sviluppo del role-taking. Secondo Selman [1976] il role-taking comprende due capacità: saper differenziare i punti di vista delle persone e saper mettere in relazione tra loro le prospettive di persone diverse. Come ha mostrato Piaget, il bambino inizialmente ha difficoltà a cogliere punti di vista diversi e considera sé stesso e gli altri come entità non distinte (egocentrismo, fino a circa 6 anni). Successivamente, inizia a capire che i punti di vista sono diversi, anche se non riesce ancora a metterli in relazione tra loro. A partire dai 9 anni circa, riesce a mettersi nei panni dell’altro e a capire che gli altri possono fare lo stesso. Tale capacità evolve gradualmente fino a circa 11-12 anni, quando il ragazzo riesce a confrontare due o più punti di vista che non solo appartengono a individui diversi, ma anche a gruppi sociali o società. Riesce inoltre a ad assumere una posizione imparziale, ad esempio in un conflitto. Le capacità di role-taking sono alla base di una varietà di competenze, tra cui quelle coinvolte nella comprensione dei rapporti interpersonali (ad es. l’amicizia), delle caratteristiche psicologiche delle persone e delle regole morali.

Scritto da Andrea Pontecorvi - Pubblicato sul numero 8 del 2021 del "Il Corace"

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