Fu il filosofo
Feuerbach nel 1862 a pronunciare quello che è diventato un famoso
aforisma: “siamo
ciò che mangiamo”.
Tale aforisma che fa dunque parte del nostro linguaggio comune in
tema di alimentazione, induce verso la differenziazione tra ciò che
fa bene e ciò che fa male alla nostra salute, ma possiamo tentare in
questa sede di provare a capovolgere tale principio con
l’affermazione: “mangiamo
ciò che siamo”,
partendo cioè anziché dal cibo, proprio dalla nostra identità.
Pensando ai nostri giorni infatti sentiamo spesso la domanda: “Che
stile alimentare segui?”,
una domanda che sta a sottolineare proprio quanto la dieta che si
segue possa essere un tratto distintivo della nostra personalità,
proprio come accade per i gusti musicali o le mete di viaggio scelte.
Ecco allora che onnivoro, vegetariano, vegano, fruttariano, crudista,
ecc., non definiscono solo stili alimentari, ma riguardano più
direttamente un preciso stile di personalità e di identificazione
sociale. Recentemente uno studio svolto su un campione di 393
partecipanti, ha concentrato l’attenzione sulle caratteristiche
psicologiche relative a cinque modelli dietetici restrittivi
attraverso il confronto tra cinque gruppi distinti (vegetariano,
vegano, senza glutine, paleo e dieta dimagrante) ed un gruppo di
controllo non aderente ad una dieta. Nel complesso dei risultati, il
gruppo impegnato in una dieta dimagrante tendeva ad essere il più
“estremo” nelle sue caratteristiche, mostrando un minor grado di
benessere psicologico e atteggiamenti e comportamenti alimentari meno
salutari, nonché minore autocontrollo e senso di auto efficacia. Al
contrario, i gruppi vegetariani, vegani e, soprattutto, i paleo,
hanno mostrato caratteristiche di forza psicologica, compresi
comportamenti alimentari più efficaci e motivati dalla salute.
Infine, le caratteristiche dei partecipanti del gruppo senza glutine
e del gruppo di controllo tendevano a collocarsi fra quelle di altri
gruppi appartenenti a stili alimentari restrittivi ed il gruppo che
seguiva una dieta dimagrante. (Norwood et al, 2018). Certamente non
si vuole proporre, anche sulla base dei riscontri dello studio appena
riportato, una classificazione psicologica dei diversi stili
alimentari, si vuole bensì porre una riflessione condivisa rispetto
a come la nostra identità, ciò che sappiamo di noi, influenzi e
determini anche le nostre scelte alimentari, e ciò non riguarda solo
la tipologia di cibo ma anche la quantità. Ad esempio
strereotipicamente associamo tutti noi la figura femminile
all’assunzione di minori quantità di cibo o di porzioni più
ridotte di cibo, rispetto al genere maschile, tanto è vero che le
donne che mangiano porzioni maggiori vengono percepite come più
mascoline. Inoltre la scelta del cibo o dello stile alimentare può
essere determinata anche da motivazioni di ordine etico, politico, o
anche religioso. Riflessioni queste che aprono la strada alla
comprensione di una nuova branca della psicologia, definita appunta
Psicologia dell’Alimentazione, all’interno della quale è stata
coniata anche l’espressione “ortoressia” proprio per definire
l’ossessione per il mangiar sano (Bratman, 1997), e che rappresenta
uno dei disturbi più attuali in questa area della psicologia. Allo
stato attuale non esistono criteri diagnostici ufficiali per
identificare l’ortoressia tanto che ci si chiede se questo
rappresenti un disturbo alimentare vero e proprio o se sia da
riferirsi a comportamenti inerenti uno stile di vita sano. Ricerche
recenti evidenziano la natura bidimensionale dell’ortoressia, che
vede da una parte una dimensione correlata all’interesse per
un’alimentazione sana (ortoressia sana) e l’altra collegata ad
una preoccupazione eccessiva per la stessa (ortoressia nervosa) (Depa
et al, 2019). Da qui la necessità di un confine che differenzi gli
stili di vita sani da comportamenti disfunzionali che possono
spingere la persona fino ai confini dell’isolamento sociale.
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