mercoledì 6 ottobre 2021

#DANTE700

Caro lettore, il Canto XVI del Purgatorio ha argomento prevalentemente politico, prendendo le mosse da un dubbio di Dante che si ricollega alle parole con cui Guido del Duca nel Canto XV aveva criticato la decadenza morale della sua Romagna e quella politica della Toscana, mentre qui le accuse del protagonista Marco Lombardo sono rivolte contro la Lombardia. Quella di Marco è una voce che Dante ascolta nel buio della Cornice, in cui procede come un cieco appoggiato a Virgilio: è chiaro il contrappasso della pena (l'ira acceca la mente e porta ad atti inconsulti), così come la necessità di seguire strettamente la ragione, simboleggiata in questo caso dal poeta latino. L'oscurità del fumo è descritta attraverso una serie di similitudini per contrasto. Dante sente solo le voci degli iracondi, che intonano le prime parole dell'Agnus Dei, che ben si adatta alla loro espiazione, dal momento che Cristo è invocato come esempio supremo di mansuetudine e prontezza al sacrificio. 

L'incontro con Marco Lombardo dà modo a Dante di affrontare un complesso e delicato discorso politico e dottrinale, che il poeta affida a un personaggio di scarso spessore biografico: di lui si sa solo che fu un uomo di corte del nord Italia molto saggio e valente, citato in alcuni racconti del Novellino, e che secondo diversi commentatori ebbe una condizione simile a quella di Dante durante l'esilio, costretto a diventare anch'egli cortigiano presso i signori di Lombardia e Romagna. Dante ha un dubbio che lo tormenta, se cioè tale declino morale sia da imputare alla condotta umana o a quelle influenze celesti che la dottrina cristiana ammetteva: Marco spiega che gli influssi astrali esistono, ma non sono certo tali da determinare le azioni umane, il ché renderebbe ingiusto premiare la virtù e punire il peccato. Dante segue strettamente l'interpretazione tomistica della questione, riconducendo tutto alla libera scelta dell'uomo, che è perfettamente in grado di distinguere tra bene e male, per cui sbaglia chi attribuisce agli influssi celesti una responsabilità che essi non hanno. A conferma di ciò, Marco affronta poi il delicato problema del rapporto tra potere spirituale e temporale: l'uomo è naturalmente portato a ricercare il proprio bene e ciò spesso lo porta a peccare, per cui è necessario che vi siano le leggi che lo tengano a freno e correggano la sua condotta. 

Doré - Marco Lombardo

Nella visione dantesca le leggi devono essere applicate dal potere politico, ovvero dall'imperatore, ma la sede imperiale in Italia è vacante dalla morte di Federico II di Svevia, per cui le leggi ci sono ma nessuno le fa rispettare, come già aveva duramente affermato nei Canti VI e VII. La responsabilità di ciò è attribuita al papa, reo di volersi arrogare il diritto di governare politicamente l'Italia in assenza del potere imperiale, e in particolare è condannato l'atteggiamento teocratico di Bonifacio VIII, che con la bolla Unam Sanctam del 1302 aveva affermato sostanzialmente questo principio e aveva unito il pastorale con la spada, il potere spirituale con quello temporale. Ciò è causa, per Dante, dei guasti politici dell'Italia del tempo e di quel disordine morale contro cui il poema si scaglia a mo' di denuncia. Dante si rifà qui anche alla teoria dei «due soli» espressa in termini lievemente diversi nel De Monarchia: il papa e l'imperatore brillano di luce propria e le loro autorità derivano entrambi da Dio. Nella visione di Dante diverso è il fine delle due autorità, dal momento che il papa deve guidare i fedeli alla felicità eterna, mentre l'imperatore deve applicare le leggi e assicurare a tutti la giustizia: ciò può avvenire solo se le due autorità sono distinte e indipendenti, reciprocamente autonome, non se il papa pretende di governare senza averne le capacità. Il tema è di importanza centrale e sarà più ampiamente affrontato nel Canto XIX del Paradiso. Solo tre personaggi dimostrano le antiche virtù e rimproverano il declino morale del presente: tre vecchi che sono esempio della cortesia rimpianta e destinata a scomparire. Si è molto discusso sull'effettivo valore morale di questi tre personaggi, di cui Dante tace o ignora alcuni misfatti politici, ma è chiaro che qui prevale l'ammirazione per l'esercizio delle virtù cavalleresche in cui essi si distinsero. In particolare, Gherardo da Camino ebbe rapporti con Corso Donati, ciò spiega lo stupore di Marco alla domanda di Dante che mostra di non conoscerlo. Marco lo indica come il padre di una certa Gaia, una giovane citata da alcuni commentatori come esempio di corruzione: se così fosse, le parole di Marco vorrebbero sottolineare il contrasto tra passato glorioso e presente misero, come anche il fatto che il valore dei padri non è stato ereditato dai figli.

Buona lettura e buon #Dante700. 

Divina Commedia, Purgatorio, XVI - Dante Alighieri, 1321

Scritto da Tommaso Guernacci - Pubblicato sul numero 7 del 2021 del "Il Corace"

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