martedì 5 ottobre 2021

LA PERDITA DI ABITUDINI E L'ANALFABETISMO EMOTIVO

Ai tempi del covid, l’uso di tablet, telefonini, social network ha finito per coinvolgere tutte le fasce di età, nessuna esclusa, dai più piccoli agli anziani, ognuno di loro per essere stato confinato in una realtà, virtuale appunto, pronta a sopperire ciò che la connettività sociale aveva costruito in millenni di storia, generando quella che è stata definitiva una apatia interiore. Ovvero, nel momento in cui il mondo, cerca di abbattere le distanze con la connettività dei social, proprio in quel momento la distanza tra noi esseri umani dilaga ancor di più. Come dice Galimberti, acuto filosofo e analista del pensiero umano, «Noi ci eravamo già abbastanza allontanati dalla socializzazione con l’informatica, diciamolo chiaramente. Non avevamo bisogno del Covid, per creare un’altra forma di distanziamento. 

Perché da tempo molti giovani parlano attraverso il computer, molta gente lavora avendo davanti a sé non il prossimo, ma uno schermo. L’informatica ha già creato un distanziamento sociale, una comunicazione che non è guardarsi in faccia, uno di fronte all’altro. La relazione si è già diluita nella configurazione informatica che non è più un io e te, ma io e la tua rappresentazione nello schermo che sta davanti a me. Naturalmente questo lavoro a distanza, questa forma di comunicazione da lontano sono diventati paradossali in occasione della pandemia. Paradossali anche dal punto di vista didattico. Quando diciamo che la scuola può funzionare a distanza sosteniamo un desiderio, non una realtà. A distanza non si insegna, la formazione ha bisogno del rapporto degli studenti con l’insegnante, il luogo, i compagni di classe”… Allo stesso modo non so giudicare se sia meglio o peggio il lavoro a distanza. Per la gente che ha un senso del dovere spiccato, diventa superlavoro, perché ha una sorta di poliziotto interiore molto più severo di chi li sorveglia sul luogo di produzione. Ma molti altri che non hanno questo senso del dovere si muovono in un contesto di rilassamento e deresponsabilizzazione. 



Non so se lo smart working abbia le stesse caratteristiche positive di quando si lavora insieme, si scambiano costantemente esperienze e parole». E proprio riflettendo su queste parole dovremmo cercare di ricorrere all’uso del computer in ambito scolastico soltanto laddove sia veramente l’ultima risorsa disponibile. Inutile negare che internet, fornisce, dopo anni di guerra al nozionismo, un’infinità di informazioni slegate tra loro, ma non regala senso critico, connessione dei dati e, quindi, conoscenza. I maestri hanno il compito di sviluppare il senso critico e mettere in connessione i dati. 

Le nuove generazioni, i ragazzi che oggi si ritrovano sui banchi di scuola, bisogna educarli, come sostiene Galimberti “al sentimento per evitare l’analfabetismo emotivo: la base emotiva è fondamentale per distinguere tra bene e male, tra cosa è grave e cosa non lo è. E bisogna farli parlare in classe. Il linguaggio si è impoverito. Si stima che un ginnasiale, nel 1976, conoscesse 1600 parole, oggi non più di 500. Numeri che si legano alla diminuzione del pensiero, perché non si può pensare al di là delle parole che conosciamo. E la scuola è il luogo dove riattivare il pensiero”. Dai concetti di intelligenza convergente e divergente nasce e si capisce la differenza di una mente che può cambiare il mondo. 

L’informatica, in pratica, non permette lo sviluppo dell’intelligenza creativa: una intelligenza convergente, che comporta il cercare la soluzione di un problema a partire da come il problema è stato impostato; invece l’intelligenza importante, quella cha fa andare avanti la storia, è divergente, e consiste nel risolvere il problema cambiando la sua stessa impostazione, capovolgendolo. Come, per esempio, ha fatto Copernico. In informatica devi trovare la soluzione secondo il programma informatico, altre possibilità non sono previste. Un metodo che svilisce l’intelligenza, trasformandola in esecutiva e non sviluppandone la parte creativa.

Scritto da Alessia Pieri - Pubblicato sul numero 7 del 2021 del "Il Corace"

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