mercoledì 1 luglio 2020

NERI E BIANCHI IN AMERICA: LE RADICI DI UNA FRATTURA CHE NON GUARISCE

Abramo Lincoln che nel 1862 abolì la schiavitù. Le leggi sui diritti civili e sul diritto di voto introdotte da Lyndon Johnson negli anni Sessanta del secolo scorso che avrebbero dovuto porre fine a ogni forma di segregazione razziale, oltre a offrire ai neri pari opportunità nello studio e nell’accesso al lavoro. Di battaglie per l’integrazione della minoranza di colore la democrazia americana ne ha combattute tante, ma difficoltà e resistenze sono sempre state enormi e la ferita della questione razziale non si è mai rimarginata. La miscela di rapporti tra le diverse comunità del «melting pot» americano è cambiata più volte negli anni, ma ha sempre mantenuto qualche fattore esplosivo: dopo lo schiavismo, la segregazione delle «leggi Jim Crow» di fine Ottocento. Dopo la segregazione, la discriminazione. E poi, ancora, la povertà, il degrado urbano dei quartieri neri e, oggi, l’insofferenza davanti ai controlli di polizia sempre più frequenti e rudi. Ricucire è difficile. Quanto ai bianchi, anche nei fautori più sinceri dell’integrazione c’è quasi sempre un sentimento di diffidenza o la tendenza a mantenere le distanze. Possiamo liquidarlo con la parola razzismo, ma il termine, in sé, spiega poco: di razzismi ce ne possono essere tanti. Perfino tra neri con molti discendenti dei popoli del Corno d’Africa e del bacino del Nilo che si sentono su un gradino più alto. Così quello che per i neri è accanimento degli agenti, per molti bianchi è una prevenzione a volte rude ma utile se si vuole evitare il dilagare del crimine. Fino a quando gli eccessi degli agenti non provocano rivolte tra i neri e anche nelle coscienze dei bianchi. Le violenze della polizia hanno prodotto negli anni numerose rivolte, comprese le due che hanno insanguinato Los Angeles: quella di Watts del 1965 - sei giorni di guerriglia, 34 morti, 1032 feriti e l’intervento della Guardia Nazionale) e quella del 1992 dopo il caso Rodney King (un altro tassista malmenato dalla polizia). Al limite della guerra civile: quando tornò l’ordine sul campo erano rimasti 50 morti e duemila feriti. E così oggi il caso del quarantaseienne nero ucciso da un poliziotto bianco diventa il simbolo del razzismo contro i neri mai estirpato nel Paese. La sera del 25 maggio George Floyd va a comprare un pacco di sigarette nel solito negozio di Minneapolis ma porge all’impiegato una banconota da 20 dollari falsa, l’impiegato se ne accorge e chiama il 911. La polizia arriva. Uno dei poliziotti, Derek Chauvin, ferma l’uomo, lo blocca, si accanisce, per 8 minuti spinge il suo ginocchio contro il petto di Floyd che ripete “non riesco a respirare”, il poliziotto non si ferma, Floyd muore. Il tutto è ripreso con i telefonini dei testimoni, il video finisce sul web, esplode il caso, poi la protesta, si riempiono le piazze contro la polizia e Trump, l’America è in rivolta, torna il grido di questi ultimi anni “Black lives matter”, le vite nere contano. Dal 25 maggio, molta America dimentica lockdown e cautele antipandemia e si riversa in strada a manifestare. “I can’t breathe”, il “non riesco a respirare” pronunciato da Floyd diventa il nuovo slogan contro la polizia stampato sulle mascherine anti-coronavirus. Di considerazioni se ne potrebbero fare mille o forse anche di più e sarebbero frutto di pura retorica che ci ripetiamo da anni, da decenni. E allora tra tutte ne ho scelta una che potrebbe essere la più rappresentativa di questi scenari di violenza che ciclicamente nella storia americana si ripetono, ovvero quella di Fabrizio Tonello, professore di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Padova. «Il punto da cui partire è chiaro: se non fosse stato afroamericano George Floyd non sarebbe morto, il peccato originale che gli Stati Uniti d’America continuano a scontare dopo centinaia di anni, è che gli Usa sono stati fondati su questo massiccio sfruttamento e sull’estrema brutalità del lavoro schiavistico e da allora si continuano a ripetere gli stessi schemi».

Scritto da Alessia Pieri - Pubblicato sul numero 5 del 2020 del "Il Corace"

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