mercoledì 1 luglio 2020

CITTÀ FANTASMA

Dopo questi mesi di quarantena, piano piano si sta tornando alla vita di tutti i giorni, sebbene la nostra società appare come una persona che ha cambiato totalmente volto o meglio, ha adattato le sue espressioni all’atmosfera che si respira ora che il virus sembra affievolito ma resta lì, come un piccolo mostriciattolo che dall’angolo di una strada ci spia ed è pronto a saltarci addosso come un brigante. Le città che abbiamo visto in questi mesi sono apparse spettrali, irriconoscibilmente vuote e silenziose e in uno dei tanti pomeriggi trascorsi a guardare, dalla finestra, questa calma immobile, mi è tornata alla mente una città costruita ben 50 anni fa e che oggi, questo vuoto che abbiamo toccato con mano, questa entità di agglomerati di cemento che ci costringeva a vivere nel suo interno, lei lo ha mantenuto e lo porta ancora con sé. Si tratta della città di la città di Pryp’jat, voluta e costruita dall’Unione Sovietica nello stato dell’Ucraina. Fu costruita a partire dal 4 febbraio del 1970 per ospitare i lavoratori e i costruttori della centrale nucleare di Cernobyl con le loro famiglie. Il suo perimetro distava solamente a 2 chilometri dalla centrale. L’intenzione dell’Unione Sovietica era quella di rendere questa città un esempio all’occhiello di qualità della vita e di benessere sfruttato proprio dalle risorse nucleari. La storia ci insegna che per un po’ andò così: pensate che la cittadina arrivò a toccare la densità di 50 mila abitanti, possedeva ben due ospedali di cui uno pediatrico e venne battezzata “La città dei fiori”, per le sue numerosissime aiuole. Fa uno strano effetto pensare a quei fiori dopo il disastro di Cernobyl, così come al parco giochi della città, considerato il punto più reattivo. Oggi è una città fantasma, la cui densità di abitanti è pari allo zero per chilometro quadrato. L’ultima frase scritta su una lavagna dell’asilo della città, prima dell’evacuazione, fu questa: “Non ritorneremo, addio”. Per nostra fortuna, questo virus ci ha fatto tornare, con la speranza di essere migliore e non conoscere mai la parola addio.

Scritto da Fabio Appetito - Pubblicato sul numero 5 del 2020 del "Il Corace"

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