La scomparsa di Trisha Brown è una
perdita annunciata. Dal 2008 questa imprescindibile capofila della
storica Post Modern Dance - nata ad Aberdeen, nello stato di
Washington, nel 1936 e scomparsa a San Antonio in Texas il 18 marzo
2017.
Si era ritirata dalla sala prova, luogo per lei vitale:
l’unico in cui la sua mente calcolatrice e strategica, ma ormai
svanita nei misteriosi fumi dell’Alzheimer, riusciva a ritrovare il
bandolo di una matassa non solo creativa. Poi il definitivo
internato, lo shock dei suoi collaboratori, dei tanti ballerini cui
ha insegnato la morbidezza del release, la liberazione dal tono
muscolare e il fluire nello spazio, o free flowing.
Una modalità di
lavoro da lei intesa come “umanesimo corporeo della non violenza”,
rifiuto di ogni forma costruita e del virtuosismo come potenza fisica di un corpo danzante
tutto in tensione. Trisha amava la scioltezza e costruiva
coreografie magnifiche che parevano buttate lì come si lancia una
manciata di palline che andranno a finire chissà dove e chissà
perché lì o là.
E invece erano frutto di calcoli minuziosi, di una
complessa “ingegneria” del movimento, tanto più stupefacente in
quanto il corpo che danza vi appare, proprio in contrapposizione alla
complessità coreografica, totalmente rilassato.
Con il successo
internazionale di Set and Reset (1983) si scoprì tutta la sua
sensibilità, ma anche la novità del suo stile, in grado di pensare
il corpo in relazione all’ideologia e alla storia. Trisha,
ricercatrice a oltranza e ballerina longeva - quasi
sessantenne si esibiva ancora in un assolo - su musica del pittore
Robert Rauschenberg, suo grande amico - dando le spalle al pubblico
(era If You Couldn’t See Medel 1994) apparteneva alla storia di
un’avanguardia rumorosa.
Le sue prime sperimentazioni avevano
destato clamore, come quando, alla fine degli anni sessanta, scalava
i grattacieli del quartiere newyorkese di Soho, chiamando le sue
pericolose ascensioni in cordata “danze” e “sfide alla forza di
gravità”.
Allieva di artisti della Modern Dance, e di Merce
Cunningham, cofondatrice del gruppo della Judson Church, e nel 1970
di una sua compagnia, si mise ad accumulare movimenti naturali con
ossessione e un pizzico di ironia, bandendo non solo il virtuosismo,
ma anche ogni tentazione musicale.
Tuttavia, con il passaggio alla
scena teatrale la sua danza cominciò a intrecciare molteplici
collaborazioni, alla fine anche musicali.
L’aspetto scientifico del
suo lavoro, il procedere per cicli o periodi di ricerca, non entrò
in crisi neppure nel momento in cui decise di incontrare
sistematicamente i suoni del passato, il jazz, Webern, Monteverdi,
Schubert e l’opera contemporanea del nostro Salvatore Sciarrino.
Con lei che tanto avremmo voluto premiata da un Leone d’oro alla
Biennale Danza di Venezia, se ne va una coreografa più che geniale e
una donna algida e appassionata, ironica e sbarazzina. Ghiaccio
bollente, come Glacial Decoy, il titolo di una sua misteriosa
coreografia.
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